"I quarantuno colpi" di Mo Yan | Quando è meglio rifuggire dai piaceri della carne

Talvolta, senza un’apparente spiegazione, sono proprio i libri che reclamano di essere letti.  E’ il caso di questo “I quarantuno colpi” di Mo Yan, scrittore cinese non dissidente, nato nel 1955 e insignito del Nobel per la letteratura nel 2012. Dico così perché qualche mese fa mi stavo aggirando fra gli scaffali della libreria che sono solito frequentare e mi ero imbattuto in quel titolo. Passai oltre, per nulla incuriosito, ma ritornato poco dopo sui miei passi, mi misi a leggere distrattamente il risvolto di copertina. Importanza dei risvolti e delle quarte di copertina, il libro mi stava richiamando!


Nella Cina dei primi anni Novanta, che resta il periodo di massimo fulgore della transizione dall’economia pianificata a quella aperta al mercato sotto la guida di Deng Xiaoping, il giovane Luo Xiaotong decide di rifugiarsi in un tempio abbandonato e diventare il discepolo del grande monaco Lan. Hmm, bene, già la cosa incuriosiva di più. Che cosa sappiamo infatti della Cina dei primi anni Novanta? Io pressocché nulla, se non il fatto che in quel periodo, da tempo il governo si era sbarazzato dei dettami della Rivoluzione culturale, senza però rinnegare il grande timoniere, il compagno Mao Tse Tung.
Acquisto dunque questa corposa edizione Einaudi, quattrocentocinquantadue pagine per l'esattezza
, e mi accingo alla lettura. Chissà perché mi ero fatto l’idea di trovarmi davanti a una specie di Murakami cinese, invece nulla di tutto ciò. Intendiamoci, l’opera è alquanto introspettiva e con un pizzico di surreale; in questo, il libro aveva scelto bene il suo lettore, tuttavia devo dire che il leggerlo è stata un’esperienza pesante. La struttura non è male. C’è il protagonista che racconta al grande monaco le vicende della sua vita, non una lunga vita perché già da ragazzino Luo era un bimbo prodigio, che scopre di possedere un dono particolare ancorché strano: quello di godere immensamente nel mangiare carne. Forse sarà stato l’influsso del padre, apprezzato conoscitore di animali di allevamento, ma la predisposizione del giovane Luo è incredibile. Ad un certo punto del racconto, addirittura, a Luo succede proprio quello che è successo a me mentre cercavo un libro da leggere in libreria. Gli succede di essere attratto dalla carne cucinata che implora di essere mangiata da lui, come a me era capitato con il libro di Mo Yan che voleva a tutti i costi che io lo leggessi. Capite bene che, nel caso di Luo, siamo di fronte a una specie di disturbo alimentare, ad una patologia, una sindrome, ma che nella sensibilità cinese diventa ben presto sinonimo di caratteristica divina. Il piccolo Lao infatti verrà ritratto per impersonare, in una grande statua, il dio della carne.
Bene. La vicenda dunque si snoda, come si può intuire, fra presente e passato. Il presente è tutto quello che succede nel tempio mentre Lao racconta al monaco la propria vita; il passato è la vita stessa di Lao che viene raccontata al monaco, in un’alternanza di punti di vista che all’inizio possono confondere o appesantire, ma ai quali a poco a poco ci si fa l’abitudine. Come va a finire la storia? Va a sapere, in realtà un finale non c’è, se non il fatto che si capisce bene perché ad un certo punto il giovane Lao intende diventare monaco. Gli ultimi capitoli, gli ultimi colpi, come quelli che vengono sparati dai cannoni in Cina per le celebrazioni, sono quelli rivelatori e, finalmente, anche con un po’più di azione. Ma certo arrivare fin lì è impegnativo. L’ultimo capitolo è estenuante, pur nel suo anelito umoristico, quasi comico, che il lettore occidentale stenterà ad apprezzare. Resta dunque una lettura che non mi sento di consigliare a chiunque. Occorre essere preparati, alla pesantezza, ma se è questo a cui non ci si vuole sottrarre allora è la lettura giusta. Una meditazione finale è questa. Per quanto la rivoluzione abbia fatto di tutto per annientare la religiosità, il paganesimo e i richiamai ancestrali alla mitologia, si avverte come il popolo cinese non abbia tradito le proprie origini per quanto ammaliato e affascinato dalle modernità, dalle ricchezze e dal lusso che sopravvivono accanto a miserie e povertà inconcepibili. Per concludere, un discorso a sé va fatto riguardo alla carne. Se vorrete fare un dispetto a un vegano regalategli I quarantuno colpi. Nel racconto si descrivono i piatti più improbabili a base di carne e le tecniche di cucina più rivoltanti per rendere gradevoli al palato, e vantaggiose alla nascente industria, le innumerevoli pratiche di alterazione della carne; si scopriranno inoltre parti anatomiche di maiali, pecore, cammelli, struzzi, cani, ecc., vere prelibatezze, che mai troverebbero spazio sulle nostre mense. Non so, vi è mai capitato di apprezzare una testa di maiale o una coda di cane? A me no e spero di non provare mai l’ebbrezza.

Commenti

Post popolari in questo blog

Ray Donovan, sláinte a tutto il male che c’è.

L'ultima dei Neanderthal

Norwegian Wood ovvero delle ancestrali pulsioni fra Eros e Thanatos