Clark, la imperdibile miniserie Netflix. Nessun vaccino sarà mai in grado di neutralizzare la sindrome di Olofsson

Perché Jonas Åkerlund abbia sentito il bisogno di raccontare le epiche gesta di Clark Olofsson sarebbe da sapere. Fatto sta che il regista di Clark, fortunata miniserie in questi giorni su Netflix, è un personaggio di quelli strambi. Svedese, nato a Bromma (Stoccolma) nel 1966, è regista e batterista e vanta un curriculum di tutto rispetto. Solo per il fatto di aver lavorato con i miei adorati Roxette, per i quali ha realizzato numerosi video lancio dei loro album e canzoni, lo rende ai miei occhi e orecchi degno di onore e imperitura gloria. Inoltre, ha partecipato a diversi tour di famose pop stars quali Blondie, Madonna, Beyonce, Taylor Swift, e probabilmente ha suonato con i Metallica, Paul Mc Cartney, Ozzy Osbourne, e tanti altri. Insomma, ha fatto tante belle cose. Come regista ha all’attivo diversi film, ovviamente sconosciutissimi al di fuori della Svezia, un titolo a caso Polar, ricordatelo perché è importante. Clark invece è una miniserie di sei episodi che ruota attorno alla figura del mitico criminale a causa del quale tutto il mondo oggi è a conoscenza dell’esistenza della sindrome di Stoccolma. Vale a dire la situazione paradossale per cui le vittime di un sequestro si affezionano ai loro sequestratori, anche a dispetto di un comportamento inizialmente violento da parte di quest'ultimi, al punto da considerare la polizia e i liberatori come ostili. La denominazione di questa sindrome è famosa ma se mi aveste chiesto chi fosse Clark Olofsson fino a un paio di settimane fa avrei risposto atteggiandomi a punto interrogativo. Ma forse sono poco informato io, o forse no. Fatto sta che è stato facile dopo circa quindici minuti di visione del primo episodio immergermi completamente nella miniserie. E ne è valsa la pena. Sei episodi passano in fretta dopo tutto. E una volta incominciata, credetemi, la guarderete in pochissimo tempo. Commenti. Ce ne sarebbero a iosa. Il primo è che la serie è dissacrante in modo spregevole. Lo posso dire con cognizione di causa: avendo lavorato in un carcere come formatore, quasi tutti i giorni ci si interrogava con colleghi, polizia penitenziaria e detenuti sulla funzione rieducativa del lavoro carcerario o dello studio in carcere o della formazione professionale in carcere. Beh, scordatevi che queste cose possano esser servite a qualcosa, a Clark: diciassette volte evaso, sostanzialmente anche grazie ad avere rispettato le regole carcerarie che lo rendevano meritevole di licenze premio, corsi professionali compresi. Effettivamente tutto questo a Clark è servito ad alimentare i suoi smisurati sogni narcisisti, ben evidenziati nella serie, come quello di diventare una specie di eroe nazionale, vivendo di rapine, carcere, amori, senza mai rendere conto a nessuno e ovviamente senza mai lavorare. Quindi se tutti i criminali fossero come lui occorrerebbe davvero riconsiderare tutte le buone prassi a proposito del famigerato ruolo rieducativo delle carceri, e stiamo parlando della Svezia, paese che già negli anni Sessanta e Settanta era all’avanguardia con metodologie di recupero da noi ancora di là da venire. Ma fortunatamente non tutti i criminali sono così, mah, speriamo, certo la psicologia alla Clark però non è proprio del tutto un’eccezione, posso confermare, e questo fa pensare. Un curiosità è che Clark, che nel suo Guinness dei primati sta il non avere mai ucciso, ricorda davvero tanto un altro criminale nostrano, il famoso bel René, alias Renato Vallanzasca, autore di rapine, soggiorni in carcere, evasioni, ma con l’aggravante degli omicidi. Anche Vallanzasca aveva alimentato la fama del criminale amato dalle donne, impegnato a disbrigare corrispondenze di ammiratrici durante i soggiorni obbligati nelle carceri italiane. I due potevano essere gemelli, più o meno nati negli stessi anni. Clark nel 1947, Vallanzasca nel 1950. E veniamo ora agli aspetti di entertainment. La serie parte dalle prime gesta di un giovanissimo Clark, e prosegue con brevissimi flashback che si ripropongono per tutti gli episodi. Apprendiamo così della infanzia infelice, vittima di un padre squilibrato e di una madre incline alla depressione. L’attore che lo impersona è Bill Skarsgard, più di un metro e 90 di statura, una certa somiglianza con il Clark vero: lo interpreta in modo credibile, divertente. È piacevole, è sexy, socievole, uno che ci sa fare con le donne. Insomma, capisci come possa nascere la sindrome di Stoccolma perché, nonostante i comportamenti assolutamente improponibili, alla fine lui ne esce sempre bene, da simpaticone. A Olofsson, infatti, andrebbe dedicato il nome della sindrome, non a Stoccolma, famosa solo per essere stata teatro della celebre rapina. La rapina è ben raccontata, forse con un peso eccessivo rispetto ad altri momenti, ma sostanzialmente quello che si vede corrisponde alla dinamica degli avvenimenti. Oh, per il resto non si sa, è vero quello che viene detto fin dall’inizio, la serie è basata su verità e bugie, va’ a sapere dove finisce la prima e cominciano le altre. Last but not least, due parole sul montaggio e sullo stile. Molto veloce, velocissimo, a volte il motion è impercettibile, nel mezzo delle sequenze vengono sparate scariche di immagini statiche della durata di pochi attimi che portano avanti la narrazione. Oppure ci sono inserimenti divertenti con la tecnica del cartone animato, come pure quella del flashback in bianco nero a sottolineare i ricordi di infanzia. Scelte geniali, a effetto, molto fumettistiche e qui torniamo a Polar, ricordate? Quel film di Åkerlund altri non è che l'adattamento cinematografico del fumetto online e graphic novel Polar: Volume One. In Clark la componente fumettistica è stata implementata in modo eccellente il che dà al tutto una forza espressiva eccezionale. Insomma, non lasciatevi sfuggire Clark... almeno voi.

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