"L'ultimo castello", di Jack Vance, metafora moderna sull'immobilismo autodistruttivo



La Terra è stata devastata da un'immane guerra, i terrestri sono migrati su altri mondi, ma alcuni sono ritornati  rifugiandosi in castelli super accessoriati, Costituiscono una casta di privilegiati, vivono ricordando gli antichi fasti, dandosi alle lettere e alle arti, alla contemplazione, in compagnia di creature eteree, le Phane,  ma basando la propia sussistenza materiale sul lavoro di una specie aliena ridotta in schiavitù,  i Mek, I Mek provvedono al funzionamento dei castelli, forniscono energia, garantiscono la manutenzione degli impianti e mantengono efficienti le armi di difesa.

Ma un bel giorno i Mek si ribellano, abbandonano un castello dopo l'altro, dichiarano guerra agli umani e agli abitanti dei castelli facendo strage degli abitanti; tutti i castelli a poco a poco vengono conquistati, tutti  tranne uno, l'ultimo castello di Hagedorn, appunto.
Ma gli abitanti di Hagedorn, imperturbabili, continuano a comportarsi come niente fosse, pensano che i Mek si ravvedranno e torneranno ai loro sottomessi lavori. Nel frattempo nessuno è in grado di far funzionare le cose pratiche nel castello, e nessuno si abbassa a fare il lavoro spregevole che facevano i Mek. Gli umani non possono accettare di svolgere lavori tanto poco dignitosi. Sicché  Il castello decade un giorno dopo l'altro e i Mek non tornano, anzi continuano a giungere notizie nefaste sui particolari riguardanti la caduta di altri castelli, tutti creduti inespugnabili, a causa degli attacchi Mek. Hagedorn si crede inespugnabile, ma cresce l'inquietudine, tuttavia non è ancora giunto il momento per reagire, modificare le esistenze improduttive degli abitanti, organizzare una difesa. Il castello pare condannato a subire un attacco definitivo; addirittura alcuni abitanti preferiscono la morte alla perdita di dignità che equivarrebbe all'organizzazione di una difesa efficace. E giunge il giorno dell'attacco al castello, al lettore la suspence sul come finirà.

  

Vance scrisse il racconto, nel 1966, metafora odierna molto calzante per l'Italia di oggi, vittima di una crisi senza fine, la quale non terminerà se non quando gli italiani l'accetteranno e si libereranno di tutti gli impedimenti che li costringono a non ribellarsi ad un lento e inesorabile declino; ma la stessa metafora vale anche per la nostra vecchia e cara Europa, anch'essa vittima di una burocrazia e di regole che le impediscono di reagire: sono regole e riti che essa stessa si è imposta, nella convinzione di restare immutabile di fronte agli eventi, arroccata nell'inespugnabile palazzo-castello Berlaymont a Bruxelles.  

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