"L'ultimo castello", di Jack Vance, metafora moderna sull'immobilismo autodistruttivo
La Terra è stata devastata da un'immane guerra, i terrestri
sono migrati su altri mondi, ma alcuni sono ritornati rifugiandosi in castelli super accessoriati,
Costituiscono una casta di privilegiati, vivono ricordando gli antichi fasti,
dandosi alle lettere e alle arti, alla contemplazione, in compagnia di creature eteree, le Phane, ma basando la propia sussistenza materiale sul lavoro di una specie aliena ridotta in schiavitù, i Mek, I Mek provvedono
al funzionamento dei castelli, forniscono energia, garantiscono la
manutenzione degli impianti e mantengono efficienti le armi di difesa.
Ma un bel giorno i Mek si ribellano, abbandonano un castello
dopo l'altro, dichiarano guerra agli umani e agli abitanti dei castelli facendo
strage degli abitanti; tutti i castelli a poco a poco vengono conquistati, tutti tranne uno, l'ultimo
castello di Hagedorn, appunto.
Ma gli abitanti di Hagedorn, imperturbabili, continuano a comportarsi come niente fosse, pensano che i Mek si ravvedranno e torneranno ai loro sottomessi lavori. Nel frattempo nessuno è in grado di far funzionare le cose pratiche nel castello, e nessuno si abbassa a fare il lavoro spregevole che facevano i Mek. Gli umani non possono accettare di svolgere lavori tanto poco dignitosi. Sicché Il castello decade un giorno dopo l'altro e i Mek non tornano, anzi continuano a giungere notizie nefaste sui particolari riguardanti la caduta di altri castelli, tutti creduti inespugnabili, a causa degli attacchi Mek. Hagedorn si crede inespugnabile, ma cresce l'inquietudine, tuttavia non è ancora giunto il momento per reagire, modificare le esistenze improduttive degli abitanti, organizzare una difesa. Il castello pare condannato a subire un attacco definitivo; addirittura alcuni abitanti preferiscono la morte alla perdita di dignità che equivarrebbe all'organizzazione di una difesa efficace. E giunge il giorno dell'attacco al castello, al lettore la suspence sul come finirà.
Ma gli abitanti di Hagedorn, imperturbabili, continuano a comportarsi come niente fosse, pensano che i Mek si ravvedranno e torneranno ai loro sottomessi lavori. Nel frattempo nessuno è in grado di far funzionare le cose pratiche nel castello, e nessuno si abbassa a fare il lavoro spregevole che facevano i Mek. Gli umani non possono accettare di svolgere lavori tanto poco dignitosi. Sicché Il castello decade un giorno dopo l'altro e i Mek non tornano, anzi continuano a giungere notizie nefaste sui particolari riguardanti la caduta di altri castelli, tutti creduti inespugnabili, a causa degli attacchi Mek. Hagedorn si crede inespugnabile, ma cresce l'inquietudine, tuttavia non è ancora giunto il momento per reagire, modificare le esistenze improduttive degli abitanti, organizzare una difesa. Il castello pare condannato a subire un attacco definitivo; addirittura alcuni abitanti preferiscono la morte alla perdita di dignità che equivarrebbe all'organizzazione di una difesa efficace. E giunge il giorno dell'attacco al castello, al lettore la suspence sul come finirà.

Vance scrisse il racconto, nel 1966, metafora odierna molto calzante per
l'Italia di oggi, vittima di una crisi senza fine, la quale non terminerà se
non quando gli italiani l'accetteranno e si libereranno di tutti gli impedimenti
che li costringono a non ribellarsi ad un lento e inesorabile declino; ma la stessa metafora
vale anche per la nostra vecchia e cara Europa, anch'essa vittima di una
burocrazia e di regole che le impediscono di reagire: sono regole e riti che essa
stessa si è imposta, nella convinzione di restare immutabile di fronte agli
eventi, arroccata nell'inespugnabile palazzo-castello Berlaymont a Bruxelles.
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